venerdì 2 dicembre 2011

La valle dei templi di Agrigento: il tempio della Concordia, di Zeus, di Eracle, di Giunone

I templi di Agrigento ( in greco Akragas) costruiti durante la tirannide di Terone e il successivo governo democratico sono l'espressione della grande prosperità economica e dello sviluppo culturale raggiunti dalla colonia greca in quel periodo.
Quella che oggi chiamiamo valle dei Templi è l'area in un cui sorgeva la maggior parte della città antica.

Al delimitare dell'acropoli si elevava il tempio dedicato al culto di Ercole. E probabilmente il più antico, edificato alla fine del VI secolo presenta una cella allungata con pronao ed opistodomo in antis con colonnati sei per quindici dai capitelli assai pronunciati.
Il tempio di Zeus venne costruito nel 480 a.C. per ringraziare il dio in occasione della vittoria sui cartaginesi probabilmente non presentava un colonnato perimetrale aperto da semicolonne in stile dorico di 4,50 metri di diametro. La maestosità dell'edificio con una pianta di 112 m per 56 m, è testimoniata dai sette metri di altezza di Telamone, scultura avente struttura non solo ornamentale ma anche portante che rappresentava il mito di Atlante e attualmente adagiata tra le rovine di Agrigento.
Il tempio di Giunone ad AgrigentoIl tempio di Giunone è un edificio in stile dorico risalente alla metà del V secolo A.c. Il colonnato si componeva di tredici elementi sul lato lungo e sei su quello corto con pronao e opistodomo in doppio antis. Incendiato dai cartaginesi nel 406 della parte sud restano intatte le colonne, la trabeazione e una parte del fregio.
Il tempio della Concordia
Resta il più importante di tutti, quasi gemello del tempio di Giunone, il tempio della Concordia, probabilmente dedicato a Castore e Polluce è uno dei monumenti del mondo greco antico meglio conservati. Databile attorno alla metà del V secolo a.C. , il tempio ha una planimetria di sei colonne sui lati brevi per tredici sui lati lunghi e al suo interno si trovava la cella in cui era collocata la statua della divinità.  Il nome gli venne dato da Tommaso Fazello in relazione alla presenza di un'iscrizione latina di età imperiale che fa riferimento alla «Concordia degli Agrigentini» che per errore venne collegata all'edificio. Il tempio è giunto sino ai nostri giorni in ottimo stato di conservazione grazie a un fortunato episodio: nel VI secolo a.C fu trasformato in basilica dedicata a Pietro e Paolo dai cristiani che per questo evitarono di demolirlo ma lo trasformarono rafforzando gli intercolumni e prendo arcate a tutto sesto nelle pareti della cella. Dal 1748 l'edificio venne ripristinato nella sua forma originaria. La base del tempio segue l'inclinazione della collina. Le sue colonne alte 7 metri erano in origine stuccate di bianco mentre i frontoni erano colorati variamente ma il pigmento non ci è sopravvenuto. Anche il tetto e le tegole erano di marmo e all'estremità delle grondaie sporgevano protomi a forma di testa di leone. la porta principale del tempio era posta a est dove sorge il sole, che secondo gli antichi greci era simbolo di vita, mentre a occidente dove la luce va a morire era la porte dell'Ade.
I primi studi e lavori di scavo avvennero negli ultimi decenni del XVIII sotto i Borboni ad opera di Gabriele Lancellotto Castelli principe di Torremuzza, l'allora responsabile della tutela dei beni culturali siciliani ma l'opera di recupero e restauro sistematica nella valle dei Templi è cominciata solo dopo la prima guerra mondiale.

fonti:
Moses Finley, gli antichi greci, Einaudi 1968
Moses Finley, Storia della Sicilia Antica, Laterza 1985
Giorgio Giulini, L'architettura, in Sikanie,: storia e civilta della Sicilia greca IVAG, MIlano 1986
Giancarlo Buzzi, Antonio Giuliano, Magna Grecia e Sicilia Mondadori , 2000
sabato 12 novembre 2011

La proposta di Cavour per Roma Capitale. "Libera chiesa in libero Stato"

Nonostante anche dopo l'unità la questione romana fosse rimasta una priorità nella sua agenda politica, Cavour dichiarò che l'Italia sarebbe andata a Roma solo con il permesso della Francia: e in effetti nel corso del successivo decennio ogni progetto di soluzione del conflitto tra Italia e Santa sede sarà sottoposto all'approvazione del governo francese e dell'imperatore. L'atteggiamento di Napoleone III verso l'Italia continuava a essere benevolo, anche se manteneva il suo veto verso qualsiasi iniziativa contro la Santa Sede con la presenza delle truppe francesi a Roma; ostili invece erano gli ambienti di corte con in testa l'imperatrice Eugenia e con una lobby militare che premeva per ulteriori annessioni dopo quelle di Nizza e della Savoia al fine di rendere più solida la tutela francese sul nuovo regno d'Italia.
Cavour avanzò la sua proposta di accordo con il papa, subito dopo la costituzione del primo governo del Regno, in due discorsi parlamentari del 25 e del 27 marzo. Dopo aver riaffermato che "Roma capitale" rimaneva un obiettivo irrinunciabile per l'Italia, Cavour invitava il pontefice a rinunciare al potere temporale "che non è più garanzia di indipendenza in cambio dell'assicurazione di poter operare nel pieno esercizio delle proprie funzioni nell'ambito di "una libera Chiesa in libero Stato". Inoltre sarebbe stata garantita al papa una cospicua rendita annua. Il governo francese avanzò una controproposta: il papa avrebbe mantenuto il territorio laziale e l'Italia si sarebbe impegnata a "non attaccare e a impedire con l'uso della forza ogni attacco proveniente dall'esterno".
Nella sostanza le posizioni di Cavour e di Napoleone rimanevano inconciliabili: il primo proponeva la fine del potere temporale che il secondo invece voleva mantenere. La morte di Cavour il 6 giugno 1861 cambiava il quadro della situazione a sfavore dell'Italia. Ricasoli cercò di portare avanti i negoziati ma non possedendo l'autorevolezza del suo predecessore le sue proposte che ricalcavano quelle di Cavour saranno ignorate sia dalla Francia che dal Vaticano.

fonti:
G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, Feltrinelli 1956-1986
B. Cialdea, L'Italia nel concerto europeo (1861-1867), Giappichelli, 1966,
G. Mammarella- P. Cacace, La politica estera dell'Italia, Laterza, 2010
G. Perticone, La politica estera dell'Italia negli atti, documenti e discussioni parlamentari dal 1861 al 1914; grafica editrice Romana, 1974
R. Romeo, Vita di Cavour, Laterza, 2004
L. Saiu, La politica estera italiana dall'Unità a oggi, Laterza, 1999
venerdì 14 ottobre 2011

Akragas, la greca Agrigento

valle templi agrigento
La colonia greca di Akràgas fu fondata nel 583-582 a. C. da un gruppo di coloni dori provenienti da Gela, guidati da Aristonoo e Pistilo che didedero al sito il nome dell'omonimo fiume. Saranno i Romani, quando la conquisteranno nel 210 a.C, a chiamarla Agrigentum. La fondazione della colonia nasceva dall'esigenza sentita dagli antichi gelesi di porre un argine all'espansione verso est di Selinunte. Il sito dell'abitato si estendeva lungo una larga vallata, protetta da un lato dalle colline e dall'altro dalla rupe Atenea in cui sorse l'acropoli. Già alla metà del VI secolo a.C. Akragas prosperava grazie alla fertilità del terreno che poteva essere facilmente irrigato attingendo ai fiumi vicini.
Il primo tiranno della città fu Falaride che conquistato il potere con un colpo di Stato, lo mantenne dal 570 fino a circa il 554 a.C. E' passato alla storia sopratutto per la sua crudeltà: difatti aveva preso l'abitudine di far bruciare vivi i suoi nemici all'interno di un toro di bronzo arroventato ( noto per l'apppunto come toro di Falaride), appositamente ideato dall'ateniese Perillo. Falaride intraprese anche una politica espansionistica verso l'entroterra agrigentino spingendosi fin verso Imera che poi, pur non avendola sottomessa, contribuì a sua volta a difendere dagli assalti dei Cartaginesi.
Akragas godette del periodo di maggiore splendore sotto il tirannno Terone che si impadronì del potere nel 488 a.C e conquistò dopo pochi anni Imera. Il suo attivismo irritò i Cartaginesi che gli mandarono contro un esercito di 300000 uomini: Terone allora si alleò con Gelone di Siracusa e la coalizione greca ebbe la meglio sui punici nella battaglia di Imera (480). Alla sua morte nel 471 gli succedette il figlio Trasideo che venne deposto l'anno successivo: da quel momento ad Agrigento fu instaurata la democrazia cui contribuì anche il filosofo Empedocle. Quello democratico fu un periodo di grande prosperità economica testimoniata dalla costruzione di numerosi templi. Tuttavia dopo un periodo di accresciuta influenza di Siracusa, Akragas dovette fronteggiare nel 406 la spedizione dei cartaginesi guidati da Annibale che intendevano riaffermare il proprio controllo sulla Sicilia. Dopo un estenuante assedio gli abitanti furono costretti ad abbandonare la città che venne distrutta; da qui i Cartaginesi sferrarono il successivo attacco verso Gela.
Akragas rinacque nel 338 a.C. per iniziativa del siracusano Timoleonte, e riacquisì un breve periodo di prosperità sotto la tirannide di Finzia (286-280). Quindi minacciata da Roma, per mantenere la sua indipendenza si alleò con i Cartaginesi. Una mossa che si rivelerà inutile giacchè i Romani conquisteranno una prima volta la città nel 261 e la sottometteranno definitivamente nel 210 a.C.
domenica 9 ottobre 2011

Siracusa contro Cartagine per il controllo della Sicilia. Dionisio I il grande e Dionisio II il giovane

Proprio mentre i Cartaginesi sembravano avviati alla conquista dell’intera Sicilia, a Siracusa assunse il potere come tiranno costituzionale (strategos autokrator) Dionisio il Grande (430-367) sostenuto dai ceti popolari. All’inizio le campagne militare da lui intraprese ebbero esito non favorevole, tanto da costringerlo a venire a patti con Cartagine. Ma poi riuscì a liberarsi dell’opposizione di esponenti dei ceti aristocratici distribuendone i beni a schiavi liberati e stranieri; trasformò l’isola di Ortigia in una cittadella fortificata; rafforzò la flotta e costituì un potente esercito di mercenari nelle cui fila vennero inseriti in seguito anche Campani, Iberi e Celti; rafforzò la cavalleria andando ad acquistare cavalli allevati dai Veneti, assai rinomati al tempo. Queste misure gli permisero di acquisire una preminenza sullo stretto di Messica con la distruzione della città di Naxos, il rafforzamento di colonie come Catania e Leontini, Messina, con la conquista delle isole Lipari, e contemporaneamente di intraprendere un’offensiva nei confronti di Cartagine cui strappò un ‘importante centro come Motye e respinse fino a Lilibeo. I Cartaginesi passarono però al contrattacco contando sul sostegno di Segesta, rimasta tenacemente avversaria di Dionisio. La situazione si capovolse e il cartaginese Imilcone giunse a cingere d’assedio Siracusa senza esiti favorevoli per il sopraggiungere di una pestilenza e di reparti spartani a sostegno di Dionisio, il quale in virtù del prestigio assunto come campione dell’ellenismo potè assumere il titolo di arconte di Sicilia.
Dopo aver fatto nel 392 una pace con i Cartaginesi , Dionisio volse le sue mire verso la Magna Grecia: nel 388 sconfisse presso l’Elleporo una lega italiota di città achee, nel 386 conquistò prima Reggio e poi tutto il Bruzio. Nel 379 acquisì Crotone, poi cercò l’alleanza di Taranto e si spinse a nord fino a creare una colonia ad Ancona e a conquistare un porto in Corsica. Nello stesso anno Cartagine , approfittando dell’insofferenza delle altre città greche verso l’espansionismo di Dionisio, riapri la contesa che durò tre anni. La conseguente pace che fissò sul fiume Halycus , a ovest di Agrigento, il confine tra le zone di’influenza greca e punica. Dionisio negli anni successivi dovette affrontare una crisi finanziaria conseguente ai problemi di mantenimento delle sue forze mercenarie ma nel 368 provò inutilmente a conquistare di nuovo Lilibeo. L’anno successivo morì dopo quaranta anni di potere ininterrotto. Lo Stato da lui organizzato e l’ambizioso progetto di creare un impero che riunisse tutti i greci d’Occidente si dissolsero dopo la sua scomparsa.
A succedergli fu il figlio Dionisio il giovane che ne proseguì la politica di espansione; ma i Cartaginesi appoggiarono contro di lui Dione, discepolo di Platone di cui avrebbe voluto riprodurre lo Stato ideale ; e mentre i due si fronteggiavano in una guerra civile i mercenari campani e sabelli creavano Stati indipendenti nell’isola di Ortigia e a Catania. Dione fu ucciso nel 354 e Dionisio venne deposto nel 345; da Corinto sopraggiunse Timoleonte a ristabilire l’ordine e l’unità di Siracusa con un regime democratico; costui riprese la lotta contro Cartagine che sconfisse presso il fiume Crimiso; combatté i i tiranni che si erano insediati in molte città greche estromettendo i mercenari che spesso vi si erano insediati; divenuto cieco abdicò nel 337 e per le sue opere venne esaltato dallo storico Timeo di Taormina come liberatore della Sicilia.
Nel frattempo la fama delle imprese di Alessandro Magno in Oriente giungeva anche a Cartagine, che, rimasta impressionata dalla conquista di Tiro nel 332 da parte del macedone, decise di guardare nuovamente all’espansione della Sicilia favorendo la scalata al potere a Siracusa di Agatocle. Uomo di oscure origini, Agatocle riuscì a guadagnarsi il favore dei ceti popolari abolendo i debiti, ridistribuendo le terre e bandendo gli esponenti aristocratici. Una volta acquisito il titolo di strategos autokrator, come Dionisio il Grande si propose come campione dell’ellenismo. Cartagine corse ai ripari inviandogli delle forze contro, ma Agatocle riuscì a rompere il blocco e a passare alla controffensiva in Africa dove grazie all’aiuto del re di Cirene, Ofella ( che poi uccise) , conquisterà città importanti come Tapso e Utica. Tornato a Siracusa nel 308, si volse di nuovo verso l’Africa dove questa volta subì dei rovesci, per poi siglare la pace con Cartagine che ristabiliva nuovamente sull’Halycum il confine di separazione delle rispettive zone di influenza in Sicilia.
Agatocle venne poi chiamato in aiuto da Taranto contro le scorrerie piratesche del principe spartano Cleonimo a cui sottrasse l’isola di Corcira. Poi si volse contro i Bruzi togliendo loro di nuovo Crotone. Allargò poi il suo orizzonte politico stabilendo buoni rapporti con i Pucezi, gli Iapigi e la città di Napoli. Morì nel 289 A.c dopo aver ripristinato a Siracusa un regime democratico. Ma i suoi mercenari campani, chiamati Mamertini per il loro culto verso Marte, si impadronirono di Messina creandovi uno stato autonomo..
Le complesse vicende politiche e militari sopra illustrate testimoniano di un più intenso contatto tra l’elemento greco e le genti italiche che favori la crescita civile di queste ultime. Uno sviluppo che come vedremo però finirà per ritorcersi contro gli stessi Greci.
lunedì 3 ottobre 2011

Il tempio E, F, G di Selinunte

ricostruzione facciata del tempio E
Sulla collina a est dell'acropoli di Selinunte si trovano alcune delle più rilevanti strutture architettoniche della Grecia in SiCilia. Il tempio E, databile attorno al V secolo a.C. è un vero esempio dello splendore raggiunto dallo stile dorico in Occidente. Si è conservato sino ai giorni nostri il colonnato perimetrale con la sua forma allungata di sei colonne per quindici, le tegole e alcune metope calcaree con rappresentazioni mitologiche a rilievo.
Selinunte tempio E

Quella visibile è l'ultima di tre successive costruzioni: la prima fu probabilmente distrutta durante un'incendio nel 510 a.C, mentre si ritiene che la seconda versione non sia mai stata portata a termine.
colonna tempio F
Il tempio F, probabilmente dedicato al culto di Dioniso, riproduceva la struttura del tempio C dell'acropoli: periptero con colonnato esterno di sei colonne per quattordici e un colonnato interno che introduce al pronao.
Fra i templi della collina orientale quello più maestoso è il tempio G o Apollonion con un basamento di dimensioni 113×54 m a sostenere un colonnato di otto elementi per diciassette di 16 metri di altezza con una lunghissima cella divisa in tre navate da due fila di colonne; nel sito è stata ritrovata la c.d. "ravola selinuntina", testo impoartntisismo che descrive l'insieme dei culti venerati in città.
tempio G Selinunte
Databile attorno al 530 a.C., il tempio G fu più volte ricostruito salvo non essere poi portato a termine a causa dell'invasione dei Cartaginesi. Si presume che gran parte del materiale sia stato ricavato dall'estrazione in cave di tufo calcareo situate nelle vicinanze, conosciute come “rocche di Cusa”: qui sono rintracciabili i segni di un lavoro con abbozzi di capitelli e colonne ancora immerse nella roccia.
martedì 27 settembre 2011

I Rotoli del Mar Morto sul sito web del Museo d'Israele


Il Museo d'Israele a Gerusalemme in collaborazione con Google ha digitalizzato e messo a disposizione del pubblico sul suo sito Internet i Rotoli del mar morto. Finora sono visibili cinque manoscritti tra cui quello di Isaia, quasi nella sua interezza, la cui redazione è databile attorno al 125 a.C. Le immagini sono ingrandibili ad alta risoluzione ( fino a 1200 megapixel) per consentire di esaminarne i più piccoli dettagli e al documento è associata una traduzione in inglese. I Rotoli furono scoperti nel 1947 in una grotta a Qumran, luogo in cui duemila anni fa si era insediata una comunità di esseni. Essi vengono considerati documenti fondamentali per ricostruire l'evoluzione del pensiero religioso montoteista.

I Rotoli di Qumran sono consultabili al sito : http://dss.collections.imj.org.il/
domenica 18 settembre 2011

Il riconoscimento internazionale del nuovo regno d'Italia ( 1861-1866)

Il 17 marzo 1861 il Parlamento appena insediato votò la legge con cui veniva proclamata la nascita del nuovo stato italiano e Vittorio Emanuele II assumeva per se e suoi successori il titolo di re d'Italia. Già all'indomani, la diplomazia italiana si mobilitava per ottenere quel riconoscimento richiesto dal diritto internazionale e necessario per assicurare la stabilità e la sicurezza dei confini, per ottenere lo scambio degli ambasciatori, partecipare all'attività della comunità delle nazioni e creare rapporti politici e commerciali con gli altri Stati. Immediatamente il presidente del Consiglio e ministro degli esteri Camillo Benso Conte di Cavour comunicava il "memorabile evento" tramite le varie legazioni di Torino presenti negli altri Stati: "la legalità costituzionale ha così' consacrato l'opera di giustizia e di riparazione che ha restituito l'Italia a se stessa". Quelle di Cavour non erano parole di sola circostanza giacché al moto di simpatia con cui in molte nazioni era stata seguita la vicenda del movimento unitario italiano si erano contrapposti atteggiamenti di diffidenza per la rapidità e la spregiudicatezza con cui era sorto il Regno d'Italia.
Dal punto di vista dei grandi Stati europei le annessioni territoriali compiute dal Piemonte sabaudo erano una violazione delle clausole previste dal trattato di Zurigo del 1859 e sopratutto erano avvenute ignorando il diritto pubblico europeo del tempo basato sul "concerto europeo" delle potenze ( Francia, Gran Bretagna, Prussia, Austria, Russia), unico organismo deputato a modificare lo status quo sulla base di quanto emerso dai congressi di Vienna e Acquisgrana. Inoltre le operazioni sabaude erano state portate avanti sulla base del principio di autodeterminazione in lesione del legittimismo dinastico,altro pilastro del sistema di Vienna. In poche parole l'unificazione italiana si configurava come un vero e proprio atto eversivo e rivoluzionario, condotto seguendo quei principi che più mettevano a rischio l'equilibrio instaurato dalla potenze che dunque avevano ragione di preoccuparsi che anche il seguito della politica italiana potesse danneggiare la stabilità dell'ordine continentale improntato alla conservazione.
Ecco dunque il senso delle parole con cui il Cavour annunciava alle cancellerie mondiali la nascita del nuovo stato: assicurare che l'Italia sorgeva nel rispetto della legittimità del diritto europeo e smetteva definitamente i panni della nazione rivoluzionaria. Però se da una parte il presidente del Consiglio prendeva le distanze dai metodi utilizzati nel percorso unitario, per contro non rinnegava affatto i principi che li avevano ispirati: se non avesse difeso il principio di nazionalità avrebbe minato le fondamenta di un'unificazione ancora precaria e automaticamente dato un segnale di rinuncia dei diritti italiani su Roma e Venezia.
L'Inghilterra fu il primo Stato a riconoscere il Regno d'Italia ( 30 marzo) confermando così la propria benevolenza da tempo manifestata verso il processo unitario. Seguirono gli Stati Uniti ( 13 aprile) , quindi l'Impero ottomano, i paesi scandinavi, l'Argentina e il Messico. L'Inghilterra era favorevole al nuovo Stato in previsione del ruolo che esso avrebbe potuto giocare nel contenere le ambizioni francesi nel Mediterraneo, un mare che con il taglio dell'istmo di Suez in corso ( sarebbe stato completato nel 1869) acquisiva notevole importanza anche per gli inglesi permettendo di accorciare i collegamenti per l'India e il sud-est asiatico. Lord Parlmeston scrivendo alla regina Vittoria sottolineva: "il Regno d'Italia non parteggerà con la Francia per pura parzialità verso di essa, e quanto sarà più forte tanto sarà più sarà capace di resistere alla coercizione della Francia".
La Francia che durante la guerra all'Austria era stata un'insostituibile alleata attenderà il 15 giugno 1861 per comunicare il suo riconoscimento. Quali erano le ragioni di una tale esitazione? In primo luogo l'evoluzione che la questione italiana aveva preso era assai differente dai progetti di Parigi, esplicitati dall'accordo di Plombieres: i desiderata di Napoleone III riguardavano un Regno dell'alta Italia di circa dieci milioni di abitanti nell'ambito di una federazione di Stati sotto la guida del Papa: un progetto che avrebbe lasciato impregiudicata l'influenza francese; cosa ben diversa era trovarsi di fronte a una penisola unita sotto la dinastia sabauda a formare un regno di 26 milioni di abitanti che per di più non nascondeva le sue aspirazioni sul Mediterraneo. Inoltre l'imperatore francese doveva far fronte all'irritazione degli ambienti clericali d'oltralpe per la perdita di territori subita dallo Stato pontificio. Napoleone cercò inutilmente di trovare una soluzione che salvaguardasse il potere temporale del Papa con proposte azzardate come quella di concedere a Pio IX il controllo della Sardegna, cosa che oltretutto avrebbe fornito alla Francia una base di appoggio nel mezzo del Mediterraneo. Questa proposta fu respinta dal Cavour: per alcune settimane la tensione tra i due Paesi si accrebbe in maniera palpabile e la Francia arrivò a ritirare il suo ambasciatore. Ma pur nella consapevolezza dell'errore commesso nell'agevolare l'unificazione italiana, lo sdegno di Napoleone non poteva arrivare sino al punto da rinnegare così repentinamente l'aiuto prestato e pochi giorni dopo la scomparsa di Cavour anche da Parigi giunse il riconoscimento.
Per Russia e Prussia invece si dovrà attendere fino al luglio 1862: entrambe erano ancorate ai principi della Santa Alleanza e guardavano con preoccupazione all'affermazione dei valori di autodeterminazione e nazionalità connessi all'unificazione italiana. Inoltre l'indignazione per l'invasione dei territori pontifici aveva provocato il ritiro degli ambasciatori di Russia e Spagna: quest'ultima riconoscerà l'Italia solo nel 1865, mentre le chiusure legittimiste russe verranno presto sacrificate all'esigenza di consolidare i buoni rapporti con la Francia.
Apertamente ostili al processo unitario rimanevano Austria e Stato pontificio. L'impero asburgico aveva perso con la Lombardia una delle proprie province più ricche e aveva ragione di guardare con timore alle rivendicazioni italiane verso Venezia: il riconoscimento verrà rifiutato fino al 1866 quando sarà concesso come parte integrante del trattato con l'Italia, conseguente alla sconfitta nella guerra con i prussiani. Il Papato aveva perso due terzi del proprio territorio ed era consapevole che lo Stato pontificio rimaneva precariamente in piedi solo grazie alla presenza delle truppe francesi a Roma, momentaneamente sufficienti ad arginare le velleità sabaude e garibaldine.

fonti:
F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Laterza 1990
D. Mack Smith, il risorgimento. Storia e testi, Laterza 1987
G. Mammarella- P. Cacace, La politica estera dell'Italia, Laterza, 2010
L. Saiu, La politica estera italiana dall'Unità a oggi, Laterza, 1999
domenica 11 settembre 2011

Architettura di Selinunte. L'acropoli

acropoli selinunte
L'antica Selinunte si estendeva sulle colline dell'Acropoli e di Manuzza tra due corsi d'acqua siciliani: il Gorgo Cottone ad est e il Modione ( l'antico Selinon) a ovest. Alle foci dei fiumi si trovavano due porti. Attorno al 560 a.C. venne costruita una zona templare la cui richezza aveva pochi eguali in tutto il mondo greco e che rese la città tra i centri più rilevanti dell'isola. Si è calcolato che per la sola costruzione del tempio E vennero spese risorse pari a 25 miliardi di euro attuali. Al giorno d'oggi purtroppo di quella magnificenza restano per lo più delle rovine.

selinunte strada verso l'acropoli
La città monumentale sorgeva sull'acropoli, dalla caratteristica forma a chitarra su una collina che scendeva a picco sul mare; ancora oggi è ben visibile l'impianto urbano del VI secolo con la strada principale che tagliava al centro la città e le trasversali che seguivano la direttrice est ovest.



il tempio C di selinunteAll'interno dell'acropoli cinta da poderose mura, ricostruite più volte il tempio C, è il più antico tra quelli identificabili: la sua edificazione è datata attorno al 560 a.C. Si tratta di un edificio dorico con un colonnato perimetrale ( periptero) con sei colonne sui lati brevi e diciassette su quelli lunghi. Al suo interno altre quattro colonne introducevano al pronao. Di particolare interesse le metope raffiguranti una quadriga con Apollo e Artemide, Perseo che uccide la Gorgone,Ercole che cattura i Cercopi e, posta al centro del timpano, una testa di Gorgone policroma.

L'attiguo tempio tempio D segue uno schema planimetrico simile a quello C. Se ne differenzia per le ridotte dimensioni in virtù dell'eliminazione della seconda fila di colonne in antis.

tempio d selinunte

Nel tempio D è stata ritrovata un'iscrizione che fa supporre che fosse dedicato al culto di Atena. Dell'attiguo tempio O, anch'esso in stile dorico, rimane ben poco: databile tra il 490 e il 460 a.C. si tratta di un periptero con sei colonne sul lato breve e quattordici colonne sul lato lungo. La sua struttura è simile a quella del tempio A costruito più a sud attorno alla metà del V secolo a.C. e di cui purtroppo non restano che rovine.

fonti:
Moses Finley, gli antichi greci, Einaudi 1968
Moses Finley, Storia della Sicilia Antica, Laterza 1985
Giorgio Giulini, L'architettura, in Sikanie,: storia e civilta della Sicilia greca IVAG, MIlano 1986
Giancarlo Buzzi, Antonio Giuliano, Magna Grecia e Sicilia Mondadori , 2000
lunedì 5 settembre 2011

Dopo l'anno Mille la città ritorna protagonista

L' anno Mille rappresenta non solo uno spartiacque simbolico del passaggio tra Alto e Basso Medioevo. Dopo questa data avviene un fatto di eccezionale importanza: torna a manifestarsi lo sviluppo delle città. Si inverte l'equilibrio di forze tra ambiente urbano e rurale che nei secoli precedenti aveva visto quest'ultimo prevalere. Lo sviluppo demografico favorisce la crescita economica accompagnata da innovazioni in campo agricolo, manifatturiero, finanziario e scientifico. Gli scambi riprendono frequenza con Amalfi, Pisa, Genova e Venezia che sviluppano legami commerciali con il mediterraneo orientale. Si creano nuovi insediamenti umani che intaccano i tradizionali poteri esercitati dalla nobiltà feudale sulle popolazioni locali.
Le città si ingrandiscono e pur continuando a riconoscere l'autorità imperiale, vanno alla ricerca di una loro autonomia economica e politica: in Italia prendono il nome di comuni, in Europa assumono varie altre denominazioni ( ad es. ville in Francia, borghi nei Paesi Bassi).
Si diffondono nuove mentalità e lo schema tripartito della società medievale ( oratores, bellatores, laboratores- preti, guerrieri, contadini) si apre alle nuove istanze di secolarizzazione e alle esigenze prodotte dall'urbanesimo. I laboratores che prima dell'anno Mille si identificano sopratutto con i contadini, divengono sempre più anche artigiani. I nuovi ceti produttivi tendono ad associarsi per difendere la propria attività: nascono le gilde, le arti e le corporazioni con propri codici di comportamento ( statuti).
Si costituiscono aggreegazioni di liberi cittadini per il governo autonomo delle città. Nei comuni l'organizzazione politica e giurisdizionale prevedeva un assemblea popolare ( che assunse varie denominazioni: concione, parlamento, arengo); il consiglio maggiore e il consiglio minore con funzioni di rappresentanza dei ceti e con compiti di affiancare nell'attività esecutiva i consoli, poi sostituiti da un podestà il cui potere venne moderato e controllato da un Capitano del Popolo, espressione appunto della parte popolare della città. All'inizio le cariche più importanti erano appannaggio delle famiglie più potenti ma poi si aprirono anche ai rappresentanti delle corporazioni artigiane. La forza dei diversi Comuni nei confronti dell'autorità tradizionali variava in funzione della capacità di rendersi autonomo sul piano politico e amministrativo tramite l'amministrazione della giustizia l'imposizione di tasse: evidentemente riacquistare un ruolo economico e politico significava per le città entrare in politico con chi deteneva il potere ( imperatori, re, signori feudali). In Italia il processo di formazione della autonomie cittadine incominciò con i comuni nel X secolo e condusse al conflitto con l'imperatore Federico Barbarossa e dopo la vittoria di Legnano (1176) e la pace di Costanza ( 1183) al diritto di emanare proprie leggi. In Germani le più forti città libere crearono la lega Anseatica, una sorta di federazione all'interno dell'impero. In Francia invece le città si allearono con la monarchia nella lotta per svincolarsi dal potere del Papato e dell'Impero.
domenica 4 settembre 2011

Per Ricasoli la resistenza dei borbonici era solo brigantaggio

Durante l'estate del 1861 nel meridione bande di insorti filoborbonici hanno contrastato, con l'appoggio frequente della popolazione locale, l'esercito sabaudo. Allo scopo di dissolvere gli interrogativi che in Europa molti si ponevano riguardo alle motivazioni di questa resistenza al neonato Stato italiano, il presidente del Consiglio Ricasoli diramò una nota diretta agli ambasciatori all'estero e pubblicata il 1 settembre anche sulla Gazzetta del Popolo di Torino in cui il governo dava la sua versione dell'accaduto. Secondo Ricasoli la rivolta non ha alcuna motivazione politica. Forte è la critica verso il disciolto esercito borbonico che pur essendo composto "da 180 mila uomini bene armati si dissolse al cospetto di un pugno di eroi ( I Mille n.d.r.)" e ora "si da al brigantaggio facendo della bandiera borbonica che prima non ha difeso emblema di assassinio e rapina". Infine Ricasoli denunciava la connivenza del governo pontificio , accusandolo di finanziare e distribuire armi e munizioni ai "briganti"

Indice: l'Italia del Risorgimento e dell'Unità

David Gilmour e l'Italia del mancato Risorgimento federale
L'assedio di Gaeta ( 1860-61) e il massacro di Cialdini
Il riconoscimento internazionale del nuovo regno d'Italia ( 1861-1866)
La proposta di Cavour per Roma Capitale. "Libera chiesa in libero Stato"
Per Ricasoli la resistenza dei borbonici era solo brigantaggio
martedì 23 agosto 2011

Storia di Selinunte

Selinunte, tempio
Selinunte fu una colonia dorica fondata nel 628 a.c sulla costa meridionale della Sicilia da coloni provenienti da Megara Iblea, città greca della Sicilia orientale. Il nome trae probabilmente origine dall'etimo greco selinon ( sedano) per la frequente presenza della pianta Apiacea nelle campagne circostanti. Selinunte rappresentava un centro di collegamento tra differenti civiltà: i greci, gli indigeni elimi-sicani e i fenici cartaginesi. Questi ultimi esercitarono nel VI secolo a.C. una pressione e un influenza particolare verso Selinunte tramite i governi del tirrani Terone di Milziade, Pitagora ed Eurileonte. La politica filocartaginese cessò quando Gelone di Siracusa sconfisse i cartaginesi ad Imera ( 480 a.C); tra il 480 e il 470 a.c venne a formarsi un governo democratico che nel 466 appoggiò Siracusa nella sua rivolta alla tirannide di Trasibulo. La rivalità con Segesta fu all'orgine del declino di Selinunte: i segestani si allearono con Cartagine che nel 409 conquistò e mise a fuoco Selinunte; la colonia andò incontro a una crisi progressiva nel IV secolo a.C., in continuo alternarsi tra il controllo punico a quello siracusano a seconda degli esiti dei ricorrenti conflitti tra le due potenze cittadine. Nel 250 a.C , nel corso della prima guerra punica Selinunte venne distrutta dai Cartaginesi e i suoi abitanti trasferiti a Lilibeo.

fonti:
Moses Finley, gli antichi greci, Einaudi 1968
Moses Finley, Storia della Sicilia Antica, Laterza 1985
Giancarlo Buzzi, Antonio Giuliano, Magna Grecia e Sicilia Mondadori , 2000
sabato 20 agosto 2011

David Gilmour e l'Italia del mancato Risorgimento federale

Gli Italiani avrebbero vissuto meglio in un'Italia divisa, o magari governata dai Borboni. Di più, una nazionalità italiana non esiste. Queste sono le provocatorie conclusioni che lo storico inglese David Gilmour trae nel suo libro "The Pursuit of Italy". Tesi che possono scandalizzare i patrioti fautori dell'unitarismo sabaudo, ma che pur portate all'eccesso come ogni buona provocazione che si rispetti, nascono avendo come presupposto un ragionamento che rivela una profonda conoscenza della storia del Bel Paese : "La pluralità costituisce il punto di forza della cultura italiana. E' evidente a tutti la distanza che separa sotto il profilo architettonico le chiese e i palazzi in stile romanico di Pisa o di Lucca dalle cattedrali di Bari o di Trani. Nel Regno Unito ha purtroppo prevalso la tendenza opposta. Una cattedrale in stile gotico del nord è quasi identica a una del sud (....) Gli Italiani dell'ottocento volevano un Paese unito ma su basi diverse: il miglior modello di riferimento era quello messo a punto da Carlo Cattaneo, ovvero uno Stato capace di rispettare ed esaltare le oggettive diversità delle popolazioni e la loro storia. I napoletani sarebbero stati decisamente più fedeli allo Stato sorto dopo il 1861 se fosse stato loro permesso di mantenere il sistema di regole creato dai Borboni decisamente superiore a quello piemontese".

Fonte: Roberto Bertinetti, L'Italia unita? meglio con i Borboni; Il venerdì di Repubblica, 19/08/2011; pagg. 93-94
venerdì 19 agosto 2011

Indice: Magna Grecia e colonie in Sicilia

Espansionismo e sviluppo commerciale di Cartagine. La lotta con i Greci di Sicilia nel V secolo a.C.
Storia di Selinunte
Architettura di Selinunte. L'acropoli
Il tempio E, F, G di Selinunte
Akragas, la greca Agrigento
La valle dei templi di Agrigento: il tempio della Concordia, di Zeus, di Eracle, di Giunone
Siracusa contro Cartagine per il controllo della Sicilia. Dionisio I il grande e Dionisio II il giovane
venerdì 12 agosto 2011

La deposizione di Cristo di Benedetto Antelami


La deposizione di Cristo , bassorilievo in marmo rosa realizzato da Benedetto Antelami, è un opera facente parte di un pulpito andato distrutto , risalente al 1178 circa, e conservata nella cattedrale di Parma. In alto a destra l'opera viene firmata dall'autore.
La scena è riquadrata entro un tralcio vegetale riprodotta con incisione a niello e i nomi dei personaggi sono iscritti ad illustrazione della scena, come in un codice miniato.
Il corpo di Cristo viene staccato dalla croce da Nicodemo e Giuseppe d'Arimatea. Alla destra di Gesù sono raffigurati i credenti: le pie donne , l'apostolo Giovanni, la Vergine Maria e la personificazione della Chiesa; dall'altro lato sono rappresentati i pagani rappresentati dai soldati che si dividono la veste di cristo, i centurioni e dalla sinagoga alla quale l’arcangelo Raffaele abbassa la testa in segno di cecità. La divisione tra cristiani e pagani è sottolineata dalla personificazione del sole e e della luna astri che rappresentano il bene e il male.
La scena del bassorilievo è divisa in due parti uguali dalla croce, il cui lato corto delimita l'altezza dello spazio. Ad essa si allineano gli angeli in volo, disposti come un prolungamento della croce.
Le figure si dispongono ordinatamente al di sopra della cornice inferiore ; il loro geometrico e pesante panneggio serve a creare giochi di luce e ombre. I soldati sulla parte destra sono disposti su piani paralleli: si tratta di un accorgimento con cui l'Antelami cerca di evidenziare la profondità spaziale.
venerdì 5 agosto 2011

Espansionismo e sviluppo commerciale di Cartagine. La lotta con i Greci di Sicilia nel V secolo a.C.

Nella prima metà del IV secolo A.c. contestualmente agli scontri che al centro Italia vedevano contrapposti Romani e Etruschi, nella parte meridionale della penisola si andava sviluppando una crescente rivalità tra l’elemento greco, la cui unificazione verrà iniziata da Siracusa e che coinvolgerà i popoli italici del sud, e i Cartaginesi impegnati in una colonizzazione della Sicilia che si faceva progressivamente più sistematica.
Cartagine fondava la sua potenza sui traffici marittimi che si sviluppavano in tutto il mediterraneo grazie a trattati commerciali che garantivano ai suoi mercanti condizioni di favore rispetto ai concorrenti e a un ben congegnato sistema di distribuzione delle materie prime e dei prodotti che utilizzava gli antichi scali fenici: dal Nord Europa giungevano ambra, stagno, dalla Spagna l’argento, dall’interno dell’Africa oro e schiavi, dalle coste del Marocco pelli e avorio. Cartagine esportava i suoi prodotti artigianali: armi, cuoi e tessuti.
Il sistema istituzionale cartaginese si basava sull’equilibrio di potere tra aristocrazia terriera , che nominava i due supremi magistrati ( sufeti) e veniva rappresentata nel Senato, e ceto mercantile da cui provenivano sovente i giudici e i componenti delle pentarchie ( consigli di cinque membri che gestivano le più importanti funzioni amministrative dello Stato) . I ceti popolari erano raggruppati in svariati corpi che si riunivano anche per consumare assieme il pasto. L’assimilazione con gli indigeni rimase problematica: Cartaginesi e Libici non arrivarono mai a costituire un unico spirito nazionale.
A partire dal VI secolo A.C l’esercito cartaginese si rafforzò soprattutto con elementi mercenari che ne divennero progressivamente l’elemento numericamente preponderante: la cavalleria era composta da capi tribù della Numidia, gli elefanti vennero introdotti dai berberi e anche i contadini libici che lavoravano nei campi dell’aristocrazia finirono per ingrossare le fila dell’esercito .
Il fatto che l’esercito cartaginese fosse composto sopratutto di mercenari favorì i tentativi dei generali di provare a sovvertire l’ordine costituzionale aristocratico: ci sono giunte notizie di tentativi di colpi di mano da parte di un certo Annone (338); di Amilcare (313) e Bomilcare ( 308), che si risolsero in insuccessi e nelle relative condanne a morte dei congiurati da parte del Senato.
Se la forza di Cartegine risiedeva principalmente negli scali marittimi va anche osservato come la formazione e il consolidamento di una ricca aristocrazia portò anche a un espansione territoriale verso ovest e sud che si accentuò dal IV sec con lo sviluppo di centri urbani come Leptis magna, Utica, Hadrumetum, Tapso. L’espansionismo cartaginese si volse anche verso la Sardegna e la Sicilia. Nel primo caso si limitò alla fondazione di colonie lungo la costa : Karalis ( l’odierna Cagliari) Olbia, Tharros, Sulci, Nora; insediamenti che però ebbero notevole peso nell’evoluzione civile dei sardi, tanto che i Romani li definiranno sprezzantemente Africani. In Sicilia invece si ebbe un intensa penetrazione nella parte occidentale con l’assimilazione delle antiche popolazioni locali degli Elimi e l’impronta cartaginese è presente in maniera capillare negli usi , nei costumi e nei culti degli indigeni. C’erano la premesse per spostare la penetrazione verso la parte centrale dell’isola, il che avrebbe reso inevitabile il conflitto con i Greci . Ma il rovescio di Imera imposto alla flotta cartaginese da Gelone di Siracusa nel 480 testimoniava quanto fosse ostica l’espansione in zone in cui la presenza greca era già consolidata. Rimaneva tuttavia il fatto che per Cartagine era fondamentale avere il controllo della sponda di costa posta di fronte a quella africana e dunque si trattava solo di cogliere ilo momento opportuno per dare inizio all’offensiva decisiva per la conquista della Sicilia. L’opportunità si presentò alla fine del V secolo A.c in concomitanza con le divisioni che avevano indebolito le città greche. Questo permise a Cartagine di conquistare Selinunte e Agrigento e di distruggere Imera.
mercoledì 27 luglio 2011

La storia dei Veneti dalle origini all'integrazione con i Romani

La popolazione dei Veneti, originaria dell'Illiria, si spostò in Italia in un epoca non precisata fra l'Età del ferro e l'Età del bronzo , occupando la zona costiera dell'Alto Adriatico da Aquileia fino alla foce del Po; il territorio occupato dai Veneti da loro prese il nome di Venezia.
Una leggenda collegava l'origine dei Veneti con Troia, basandosi sulla presenza di una omonima località nel golfo veneto e sugli "enetoi", ricordati nell'Iliade come alleati dei troiani. Fu Erodoto a contrastare questo mito locale, riportando alla migrazione dall'Illiria la genesi del popolo veneto. Secondo Tito Livio i Veneti scacciarono dal loro territorio gli Euganei che prima di loro abitavano tutto il territorio compreso tra le Alpi e il mare.
La cronologia dello sviluppo della civiltà veneta si distingue in tre fasi: le origini di tipo villanoviano; la transizione compresa tra l'età del Bronzo e del Ferro; infine la fase dello sviluppo graduale che culmina nell'alleanza con i Romani.
L'arte veneta villanoviana si distinse ben presto da quella emiliana per la sostituzione dell'ossario ( benché rimanesse in uso l'incinerazione dei cadaveri), dei vasi bronzei decorati prima con motivi geometrici e successivamente con figure di animali e umane. Iscrizioni di lingua paleoveneta in un alfabeto simile a quello etrusco appaiono a partire dal VI secolo a.C. L'invasione dei celti nella regione compresa tra il Po e le Alpi , databile tra il VI e il V secolo condizionò la successiva evoluzione dei Veneti che al termine del conflitto contro gli invasori riuscirono a conservare i territori di Verona e Ateste, loro frontiere avanzate, mentre i Cenomani non si spinsero oltre la conquista di Verona. Successivamente i Germani con la loro invasione nelle valli della Carnia, della Carinzia, della Carniola misero a rischio la sicurezza dei Veneti che abitavano in pianura ma i Romani sconfissero nel 222 a.C. nella Gallia i Cisalpina i Celti. I Veneti sostennero i Romani nella battaglia e da questo momento ha luogo un alleanza cui i due popoli rimasero sempre fedeli e a cui si unirono anche i Cenomani. Nel 181 a.C: i Romani fondarono in territorio veneto la colonia di Aquileia, destinata a divenire un importante centro di collegamento commerciale e una piazzaforte difensiva contro le incursioni di carni, Iapodi e sopratutto Istri. Da qui mosse il console Aulo Manlio Vulsone nel 187 contro gli Istri, sterminandoli; stessa sorte toccò nel 129 a.C. ai Carni e agli Iapodi per opera di Caio Sempronio Tuditano. Aquileia a partire dalla guerra sociale ( 89 a.C) verrà configurata come municipium, mentre altre città venete come Padova e Vicenza in forza della Lex Pompeia assunsero lo status di colonie di diritto latino. Da quel momento i Veneti si integreranno definitivamente nella cultura latina risultando completamente romanizzati in età augustea.
lunedì 11 luglio 2011

Taddeo Gaddi, pittore innovativo sulle orme di Giotto

 Apparizione dell'angelo ai pastori
Taddeo Gaddi, figlio del pittore Gaddo Gaddi, nacque a Firenze intorno al 1300. Secondo quanto riportato da Cennino Cennini nel suo trattato " Libro dell'Arte", Taddeo fu il figlioccio di Giotto e si sarebbe formato artisticamente nella sua bottega di Firenze dove lavorò per 24 anni. La sua prima importante opera compiuta autonomamente databile tra il 1332 e il 1338 sono gli affreschi con le Storie della Vergine nella cappella Baroncelli in Santa Croce a Firenze, per la quale lo stesso Giotto dipinse la tavola d'altare con l'Incoronazione della Vergine. Taddeo instaurò con i frati francescani di Santa Croce un rapporto assai proficuo sotto il profilo professionale con altre prestigiose commissioni tra le quali ricordiamo le formelle realizzate per il reliquario della sacrestia, oggi distribuite tra la Galleria dell'Accademia a Firenze e il Museo di Berlino, e la decorazione nel refettorio del convento. Dopo la morte di Giotto, Taddeo divenne uno dei più prestigiosi pittori di Firenze e la sua fama lo portò a lavorare anche al di fuori della città: nel 1342 realizza i grandi affreschi con le Storie di Giobbe nel Camposanto monumentale a Pisa; nel 1355 la Madonna con Bambino in Trono per l'abbazia di San Lucchese a Poggibonsi, oggi conservata negli Uffizi . Se l'influenza del suo maestro rimane evidente in tutte le sue opere, tuttavia Taddeo sviluppa un suo stile pittorico originale in particolare con le sua ricerca delle varie sfumature di luce. La sua "Apparizione dell'Angelo ai pastori" ( 1338) viene considerata dalla critica il primo esempio di luce notturna nella pittura occidentale. Alla morte di Taddeo probabilmente nel 1366, la sua bottega verrà portata avanti dai figli Giovanni e Agnolo Gaddi, anch'essi pittori di larga fama.
domenica 3 luglio 2011

I Galli Senoni e i Lingoni

I Senoni erano due popolazioni di origine celtica di cui una residente nella Gallia transalpina e l'altra in quella cisalpina.
I transalpini occupavano il territorio compreso tra il corso medio della Loira e la Senna. Il centro principale era Agedincum, denominato Senones dal secolo IV in poi, oggi Sens nel dipartimento della Yonne, in Borgogna. altro centro importante era Autessiodurum, l'odierna Auxerre. I Senoni cisalpini si stabilirono attorno al IV secolo a.C in Romagna tra Rimini e Ancona e la zona da loro prese il nome di Ager Gallicus. per un secolo le loro scorrerie dettero notevoli grattacapi ai Romaniche nel 283 a.C. li sottomisero costringendoli ad accettare la fondazione delle colonia di Sena Gallica ( odierna Senigallia nel 283) e Arimnum ( odierna Rimini nel 268). Nel 238 una larga fetta del loro territorio dalla foce del Rubicone a quella dell'Esino venne confiscata e nel 232 a.c su proposta del tribuno della plebe Caio Flaminio redistribuita a coloni plebei.
Secondo quanto riferito da Tito Livio, nella bassa Romagna si stabilirono invece tra il V e il IV secolo, i Lingoni, altro popolo gallico originario delle valli della Senna e della marna. Il ramo che si trasferì nella Gallia Cisalpina entrò in contatto con gli Etruschi che abitavano la Valle Padana arrivando forse a una vera e propria commistione con loro. I Lingoni potrebbero avere partecipato al sacco di Roma compiuto da Brenno nel 390 a.C.
sabato 2 luglio 2011

La crisi delle città nell' Alto medioevo

La fine dell'impero romano determinò la crisi della rete città che ne costituiva la struttura portante. Tra il V e l'VIII secolo molti centri urbani si spopolarono o addirittura scomparvero, abbandonate dai proprietari terrieri che in precedenza ne erano stati il ceto dirigente, e private della funzione centrale in una società sempre più ruralizzata.
Questo fenomeno di disgregazione urbana non si manifestò ovunque con la stessa intensità. Nelle aree più urbanizzate ( Gallia, Italia, Africa mediterranea) fu assai più evidente. Basti ricordare che Roma passò dall'essere una metropoli di oltre un milione di abitanti durante l'apogeo della sua potenza imperiale, a un centro che contava da 25000 a 40000 abitanti in epoca altomedievale; rimaneva il più grande centro abitato dell'Occidente ma aveva perso oltre il 95% della sua popolazione.
Nonostante il decadimento non si perse la nozione di città come centro di esercizio di poteri pubblici. Rimasero in funzione le competenze amministrative e politiche dei vecchi municipi romani, così come non scomparvero in campo religioso le istituzioni vescovili. Le città mantennero anche il loro ruolo di raccordo territoriale, ponendo le premesse per quelli che sarebbero diventati i contadi urbani in epoca medievale.
Per quel che riguarda l'aspetto economico, eccezion fatta per alcuni centri commerciali del Mare del Nord e del Mediterraneo, il rilievo delle città scemò notevolmente. Anche in questo caso l'intensità della crisi variò da regione a regione: nella Gallia centro-settentrionale e nell'Italia meridionale le elites terriere spostarono la loro residenza in campagna, mentre rimasero in città nella Gallia meridionale e in Italia centro-settentrionale contribuendo in questo caso a gettare le premesse per quella che sarà dopo l'anno Mille una rinascita urbana
martedì 28 giugno 2011

Indice: la società medievale

All'alba del medioevo città-isole, città fantasma.
La crisi delle città nell' Alto medioevo
Istantanea dell'Alto Medioevo occidentale: il paesaggio umano e naturale
Contadini servi e liberi nell'Alto Medioevo
Il riciclo dei materiali edili nel Medioevo
Dopo l'anno Mille la città ritorna protagonista
La lingua nel Medioevo: dal latino al volgare
Vassallaggio e beneficio: i due volti della fedeltà feudale nel Medioevo
domenica 26 giugno 2011

I Galli Boi e gli Insubri

I Boi erano una popolazione celtica di origine incerta; probabilmente nell'età del ferro erano residenti nell'odierna Boemia ( che da essi prende il nome). Se il gruppo tribale principale rimase nei territori d'origine ( per essere poi scacciati dal Marcomanni nel I secolo d.C. e andare in Baviera), una parte dei Boi si trasferì nel VI secolo a.C prima verso l'Iberia per poi stanziarsi nella zona a sud di Bordeaux. Attorno al 400 a.C. altri gruppi scesero in Italia nel territorio tra il Po e l'Appennino, occupando la città etrusca di Felsina che ribattezzarono Bononia ( oggi Bologna). Sconfitti più volte dai romani nel 282 e nel 225 a. C., verranno definitivamente soggiogati da Scipione Nasica nel 191 a. C. e gradualmente romanizzati.
Altra tribù celtica immigrata in Italia sono gli Insubri: anche in questo caso si è incerti sulla provenienza , probabilmente la Gallia o i paesi danubiani. Si stanziarono verso la fine del V sec. a.C. a nord della riva sinistra del Po, ad oriente del Ticino da dove partivano per le loro scorribande in tutta la penisola. La loro principale città era Mediolanum ( Milano), ma si insediarono anche a Monza e successivamente a Como, Pavia, Novara, Lodi e Bergamo. Si unirono con i Boi, i Liguri e altre tribù galliche contro i romani ma vennero sconfitti a Talamone ( 225) e Clastidium ( 222). Stimolati dall'arrivo di Annibale in Italia tornarono ad affrontare i Romani, attaccarono le colonie latine di Cremona e Piacenza ma vennero definitivamente sottomessi nel 194 a. C. I loro discendenti, acquisiranno nell'89 a.C il diritto latino (ius Latii) e nel 49 a.C. la piena cittadinanza romana
giovedì 23 giugno 2011

L'espansione dei Celti e dei Galli in Italia e la loro influenza nel IV - III secolo a.C.

La penetrazione dei Celti in Italia avvenne ad ondate successive: inizialmente in ordine sparso durante l’età del ferro ( XI-IX sec A.C) , poi con tribù di invasione più compatte tra il VI e IV sec A.C. A questa seconda ondata si riferisce l'episodio del sacco di Roma da parte dei Galli nel 390 A.C. A testimoniare la rilevanza della loro presenza nel panorama italico il fatto che la Pianura padana fino al I sec D.C venne denominata Gallia Cisalpina.
I nomi di molte di queste tribù celtiche sono giunti fino ai nostri giorni: ricordiamo gli Insubri di stanza nell’Alta Lombardia, i Boi a cavallo del Po fino a Parma e Bologna, i Lingoni nella parte orientale del Po, i Senoni tra Rimini e Ancona, i Laevi e i Marici, nel Pavese e nel Novarese. Nel Veneto orientale si fece prepotente l'avanzata dei Carni, mentre nelle zona centrale essa fu resa blanda dalla resistenza dei Veneti.
Ciò che spinse queste popolazioni a valicare le Alpi fu il desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita e l'innato spirito d'avventura. Dove riuscirono a sottomettere le popolazioni autoctone non si registra un'evoluzione verso una civiltà urbana al contrario invece di quando riuscirono a convivere con le popolazioni più civilizzate dell’Etruria Padana ( che vennero però in un secondo tempo sopraffatte : da qui ad esempio la mutazione del nome di Felsina in Bononia)e dei Veneti che invece riuscirono a mantenere intatta la loro civiltà. Grazie a questi contatti si ebbe un miglioramento anche dell'arte celtica, inizialmente astrattamente stilizzata e propendente all'ornamento, verso una maggiore umanizzazione con ulteriore sviluppo nella metallurgia nella quale i Celti già eccellevano.
A partire dal IV secolo A.C l'influenza dei Celti nelle vicende politiche della penisola diviene più intensa. Essi con le loro pressioni da nord sugli Etruschi favorirono il progetto espansivo di Dionigi di Siracusa. Nel III secolo presero parte alle coalizioni antiromane che cercavano di porre un freno all’irresistibile espansione dell’Urbe. I Boi fecero un irruzione arrestata dai Romani nel lago Vadimone (283 A.C). Mezzo secolo più tardi ancora i Boi alleati con Insubri, Lingoni e gruppi di Celti d’oltralpe furono seccamente sconfitti dai Romani presso Talamone (225 A.c). Il contrattacco dei Romani portò alla vittoria di Clastidium ( Casteggio) contro gli Insubri nel 222. Da questo momento la colonizzazione romana della valle Padana si fa sistematica. I Celti sopravvissuti alla repressione instaurano pacifici rapporti con l’elemento romano-italico fino a fondersi con esso e creando i presupposti per la definitiva integrazione dei territori padani nello Stato romano.
giovedì 16 giugno 2011

Enneade: la cosmogonia dell'antico Egitto. Atum, il dio sole, origine dell'universo


Nella religione di Stato dell'Antico Egitto il ruolo preminente venne assunto dal Dio-sole nelle sue diverse manifestazioni. Furono i sacerdoti di Eliopoli, (località situata dove oggi sorge un quartiere de il Cairo) a elaborare la prima dottrina e a diffonderne il culto. Secondo la cosmologia egizia in principio fu Nun, il Caos. Dalla sua informe massa liquida sorse una collinetta di sabbia vergine, da cui il dio solare Atum, raffigurato come un leone o come un leone dalla testa umana, creò se stesso e l'universo. Il primordiale raggio solare si pietrificò formando il Benben, la sacra pietra di forma conica venerata ad Eliopoli, sito dove secondo gli Egizi sarebbe avvenuta la creazione.
Atum già all’inizio dell’Antico Regno acquisì rilevanza di dio nazionale, ragion per cui viene raffigurato con la doppia corona in testa.
Masturbandosi Atum generò una coppia divina, Shu, il "fiato" di Atum, dio dell’atmosfera e della luce del sole, e Tefnut, dea dell'Umidità atmosferica il cui nome evoca lo sputo di saliva di Atum da cui essa sarebbe sorta. Shu e Tefnut si unirono a generare Nut, il Cielo, e Geb, la Terra che a loro volta avranno quattro figli: Seth, dalla testa di animale immaginario e Nefti, sua sorella e sposa; Iside e Osiride, protagonisti del mito più famoso dell'Antico Egitto destinato ad avere grandi fortune anche nel mondo greco. La dottrina dei sacerdoti di Eliopoli venne denominata Enneade in quanto basata su un gruppo di nove dei; simili cosmogonie vennero elaborate in altre città come Ermopoli e Memfi che però si fondavano su otto divinità (Ogdoade). A Ermopoli la genesi dell'universo veniva spiegata con l'unione di quattro coppie di dei ( con la parte maschile che assumeva la sembianza di serpente, quelle femminile la rana) ciascuna delle quali rappresentava un aspetto del Caos primordiale: Nun e Naunet, l’Umido, Kek e Keket, l’oscuro, Heh e Hehet, l’indefinibile, Amun e Amanuet, l’inconoscibile. A Menfi la divinità principale era Ptah, il dio creatore che dopo aver immaginato tutte le creature diede loro la vita con la sua parola.
martedì 7 giugno 2011

Istantanea dell'Alto Medioevo occidentale: il paesaggio umano e naturale

Se si volesse utilizzare un immagine per fotografare l'Occidente alto-medievale si potrebbe utilizzare quella di un paesaggio a macchia di leopardo con un precario equilibrio tra ambiente naturale e presenza dell'uomo. Dominano i boschi, le foreste, le paludi, le distese di terre incolte e desertiche in cui si inseriscono frammenti di insediamenti umani: i nuovi villaggi, le villae, i monasteri e i castelli si alternano a ciò che resta delle antiche città romane, malinconico retaggio di un passato troppo lontano per essere rivissuto e troppo recente per essere cancellato dalla memoria. In un contesto per lo più rurale , i luoghi abitati formano delle realtà a se stanti che ottengono dal paesaggio circostante il necessario a una sovente misera sopravvivenza.
Tuttavia permane una notevole differenza tra il nord dell'Europa in cui il clima rigido rende il paesaggio più ostile e selvaggio, e il meridione del continente, più romanizzato e più clemente sotto il profilo meteorologico.
Attorno ai villaggi si collocano le aree coltivate con tecniche agricole primitive e estensive: in pianura prevalgono i cereali e i legumi, in collina la vite e l'ulivo. L'occasionalità dei contatti a lunga distanza rende superflua la rete viaria congegnata dai romani che quindi è destinata a cadere in rovina e ciò contribuisce a rendere i collegamenti rari e insicuri.
giovedì 5 maggio 2011

L'assedio di Gaeta ( 1860-61) e il massacro di Cialdini

Tra il novembre 1860 e il febbraio 1861 si svolge a Gaeta l'ultimo atto della resistenza borbonica all'avanzata delle truppe sabaude nel sud d'Italia. Mentre i garibaldini proseguivano con la spedizione dei Mille, il 6 settembre 1860, su consiglio del ministro della polizia e dell'interno Liborio Romano,il re delle due Sicilie Francesco II abbandona Napoli per rifugiarsi nella fortezza di Gaeta. Non viene opposta la benché minima resistenza all'avanzata sabauda: mantenere il controllo della capitale era divenuto impossibile e in questo modo si sarebbe evitato un'inutile spargimento di sangue. Dopo le sconfitte del Volturno ( 1 ottobre) e del Garigliano ( 29 ottobre), i resti delle truppe borboniche si concertarono proprio a Gaeta per sostenere l'ultimo disperato tentativo di evitare la dissoluzione del regno.
L'avamposto sabaudo si insedia ai piedi della fortezza il 6 novembre. L'11 novembre l'esercito piemontese guidato dal generale Enrico Cialdini forte di 18000 uomini, 66 cannoni a canna rigata e 180 cannoni a lunga gittata fa cominciare le ostilità militari ; il 13 novembre prende avvio l'assedio vero e proprio. Cialdini nel momento di porre l'assedio alla fortezza impose a tutti i Gaetani che abitavano fuori dal forte lo sgombero dalla città entro dieci ore, passate le quali chi si fosse spostato , sarebbe dovuto essere arrestato e trattato come agente del nemico. Di conseguenza coloro che non obbedirono all'ultimatum si trovarono nullatenenti, mentre chi rimase nelle proprie case divenne bersaglio dei cannoni. A partire da dicembre Cialdini ordinò di bombardare anche obiettivi civili, come chiese, ospedali e casi civili allo scopo di piegare il morale dei resistenti. Dopo 102 giorni di assedio, il 15 febbraio 1861, Francesco II annuncia la resa della fortezza di Gaeta, si imbarca su una nave francese e ripara in esilio a Roma, ospite di Pio IX. Il bilancio ufficiale delle vittime che viene diffuso parla di 867 borboni e 41 piemontesi ma tiene conto solo delle perdite tra i militari. Oggi sappiamo che il numero dei morti è stato ben maggiore tra la popolazione civile, decimata dalle bombe, da un epidemia di tifo e dalle privazioni dell'assedio: sono 5000 i deceduti accertati in totale, in una delle pagine più oscure del Risorgimento.
Gaeta non ha mai aderito formalmente al regno d'Italia. Cialdini convocò gli amministratori della città ma si presentarono solo cinque decurioni ( equivalenti ai consiglieri comunali) su venticinque. Per deliberare a norma di legge era necessaria la maggioranza dei due terzi. Allora Cavour chiese un elenco dei notabili e fece pubblicare sulla Gazzetta ufficiale l'atto di unione firmato sottoscritto da quelle persone: un falso in atto pubblico. Quei quattro mesi d'assedio azzerarono l'economia della cittadina: i soldati piemontesi distrussero durante l'occupazione distrussero le coltivazioni; contro i rigori dell'inverno si scaldarono bruciando la legna degli olivi secolari abbattuti; tutta l'attività navale mercantile venne messa in ginocchio. Gaeta da allora non si è più ripresa e il risarcimento chiesto dai Gaetani non è mai arrivato.

FONTI: Gigi Di Fiore, Gli ultimi giorni di Gaeta, Rizzoli, Milano, 2010.
Pino Aprile, Terroni, edizioni Piemme, Milano, 2010
mercoledì 6 aprile 2011

476: cade l'impero romano d'Occidente. Ma nessuno se ne accorge.

Nel 476, con la deposizione dell'imperatore Romolo Augustolo da parte del comandante erulo Odoacre viene convenzionalmente indicata la fine dell'impero Romano d'Occidente, la fine dell'antichità e l'inizio di una nuova era denominata appunto Medioevo. Ma i contemporanei non avvertirono minimamente l'epocale cesura di quell'evento. Già da tempo l'Impero d'Occidente era sprofondato in una decadenza irreversibile e gli ultimi imperatori non erano che dei fantocci in mano ai generali barbari veri detentori del potere di fatto. Odoacre inviando le insegne imperiali al Basileus di Bisanzio Zenone, sanciva formalmente ciò che oramai era sentire consolidato presso la popolazione: per l'autorità imperiale si guardava solo verso Oriente. Solo mezzo secolo più tardi, il primo ad accorgersi della rilevanza della detronizzazione dell'ultimo imperatore sarà il funzionario bizantino Marcellino Comes che nel suo Chronicon scrive : "l'impero romano venne a morte con questo Augustolo".
Prendendo spunto da questi elementi non pochi storici moderni hanno messo in discussione il valore periodizzante di questa data. Tra i maggiori fautori di questa testi critica Arnaldo Momigliano con suggestiva espressione ha definito la fine dell'impero romano d'Occidente " una caduta senza rumore". Nell'antichità molte civiltà ebbero un rapido crollo immediatamente riconosciute come tale. Per l'impero romano invece mentre già dal IV secolo d.c. autori cristiani come Sant'Ambrogio e San Girolamo insistevano sulla sua decadenza, la scomparsa nel 476 dell'ultimo imperatore di Ravenna non venne vissuta come un elemento traumatico. "Mancò il momento drammatico-la sconfitta militare, l'uccisione del sovrano, la distruzione fisica- che potesse destare echi simili a quelli che accompagnarono la caduta di Ninive, Persepoli, Babilonia, o anche di Sparta e Atene. Se ci fu un momento paragonabile alla caduta di Ninive fu il sacco di Roma del 410 che non per nulla ispirò Sant'Agostino. Tuttavia lo stesso sacco di Roma, visto retrospettivamente, non fu un momento decisivo e questo forse indusse a non drammatizzare". La caduta di Romolo Augustolo non riguardava che l'Italia. La mediocre figura del tredicenne imperatore deposto, che venne poi mandato a vivere in Campania con la madre dotandolo di una cospicua pensione indussero a non drammatizzare il fatto.
Anche lo storico tedesco Karl Ferdinand Werner nel saggio "nascita della nobiltà" giunge a simili conclusioni: Odoacre aveva riconosciuto la superiorità di Zenone chiedendo in cambio il riconoscimento del titolo Praefectus imperiale. L'Impero d'Occidente non aveva subito l'atroce fine sotto i colpi delle invasioni barbariche. L'impero che non era mai stato formalmente diviso, smise di avere due imperatori e tornò ufficialmente all'unità. Di fatto però l'influenza di Bisanzio su quei territori sarà minima: dopo il tentativo di Giustiniano di riportarla sotto il proprio controllo, l'Italia diverrà territorio di conquista di un popolo inizialmente poco malleabile alla cultura romana: i Longobardi.
martedì 29 marzo 2011

Contro le razzie dei Longobardi anche l'hospitalitas fu inutile

Cacciati dagli Avari, i Longobardi lasciarono la Pannonia per giungere, attraverso il Fiuli, in Italia nel 568 (o 569 secondo alcuni storici), sotto la guida de re Alboino. Subito presero il controllo delle principali città della pianura padana: Treviso, Vicenza, Verona, Milano e Pavia. la successiva penetrazione nella penisola venne invece porta avanti su iniziativa di singoli duchi, ( da cui sarebbero sorti i ducati di Spoleto e Benevento). La carica regia difatti era utilizzata come elemento unificante nelle condizioni critiche di guerra e migrazioni, per il resto i centri di potere facevano capo alle singole tribù spesso in lotta tra loro. Questa conflittualità interna è all'origine degli omicidi che avevano colpito Alboino (572) ed il suo successore Clefi (574) e del successivo vuoto del potere centrale durato per un decennio fino all'elezione di Autari nel 584.
I Longobardi erano una popolazione che a differenza di altri barbari avevano avuto pochi contatti con la cultura romana. Un'estraneità che in questo primo periodo si tradusse in saccheggi, chiese devastate , espropri, eliminazione della classe senatoria nella penisola reduce da venti anni di guerra tra goti e bizantini.
Per questo risultarono con loro problematici i tentativi di applicare il diritto di hospitalitas ( la concessione di un terzo delle terre o delle tasse ai nuovi dominatori) e ciò produsse un vero e proprio esproprio di terre che la popolazione non aveva finora mai dovuto subire. Questa netta separazione tra Longobardi e gente romani segnò un punto si frattura tale che alcuni storici fanno partire il Medioevo proprio in concomitanza con l'invasione longobarda.
mercoledì 23 marzo 2011

Paolo di Tarso: origine divina del potere politico

L'atteggiamento verso il potere politico di Paolo di Tarso è comprensibile analizzando la sua biografia . Mentre Gesù di Nazareth, svolge la sua attività di profeta itinerante esclusivamente nei villaggi all'interno dei confini della Palestina senza contatti diretti con l'autorità romana, Paolo è un cittadino romano, nato a Tarso in Cilicia un centro urbano in cui fioriva quella cultura ellenistica di cui egli stesso era imbevuto; viaggiatore instancabile, è un profondo conoscitore di quel mondo ellenizzato in cui svolge la sua predicazione. Inoltre Paolo era un fariseo e in quanto tale il suo pensiero è dominato dal problema della legge. Per questo Paolo assume la posizione di lealismo politico tipica del fariseismo.
Difatti nella lettera ai Romani (13,1-7) Paolo sostiene che qualsiasi autorità proviene da Dio ed è da lui ordinata. L'ordine politico comprende tre livelli: coloro che sono investiti dell'autorità da Dio, i sudditi che devono sottomettersi a quest'ordine; e coloro che invece si ribellano all'autorità. Ogni autorità in quanto proveniente da Dio è legittima ed è compito del credente rispettarla indipendentemente dalla sua natura, buona o cattiva. Ma quest'obbedienza non dev'essere incondizionata: vale anche per Paolo il principio enunciato negli Atti degli Apostoli (5, 29) "bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini"; in caso di conflitto etico deve prevalere la coscienza deve indirizzarsi verso Dio. Il punto più rilevante della dottrina paolina sta nell'origine divina del potere politico, che in quanto parte di un ordine voluto da Dio non può essere malvagio.
Lo sfondo del suo pensiero resta però apocalittico-escatologico. Nella lettera ai Flippesi (3,20) scrive : "la nostra cittadinanza ( politeuma) è però nei cieli dove attendiamo anche, come Salvatore ,il nostro Signore Gesù Cristo". Dunque per Paolo di Tarso lo stato terreno non è che transitorio per il cristiano, che deve tendere allo stato celeste: l'unica vera cittadinanza è quella connessa allo status di appartenente alla polis celeste ( vedi anche 1Cor. 6,1-11). Una concezione della comunità cristiana in rapporto al potere politico che avrà notevoli fortune e che troverà la sua definitiva formulazione nella città di Dio di Agostino.
mercoledì 23 febbraio 2011

Duccio di Buoninsegna


Nato a Siena nel 1255 ca. Duccio di Buoninsegna già in giovane età dovette rendersi indipendente come pittore giacché esistono documenti risalenti al 1278 che certificano pagamenti di varie opere andate perdute. Nel 1285 gli viene commissionata dalla compagnia dei Laudesi della Maestà, nella Chiesa di Santa Maria Novella a Firenze. Il dipinto noto come "Madonnna Rucellai" risente dell'influenza di Cimabue e si trova oggi nella Galleria degli Uffizi. Risalente allo stesso periodo è la Madonna dei Francescani, conservata nella Pinacoteca di Siena. Nel 1287-88 Duccio realizza la grande vetrata del duomo di Siena, raffigurante l'Assunzione e l'Incoronazione della Vergine a cui è dedicata la Cattedrale. Per la stessa chiesa viene commissionata all'artista la pala d'altare completata nel 1311. Il polittico, parzialmente compromesso nella conservazione , si conserva oggi nel locale Museo dell’Opera. L'affresco rinvenuto p nel Palazzo Pubblico di Siena, raffigurante forse la Sottomissione del Castello di Giuncarico al Comune di Siena avvenuta nel 1314 è probabilmente riferibile all'opera tarda dell'artista che muore nel 1318-19 circa.
sabato 29 gennaio 2011

Naqada: la preistoria dell'Antico Egitto

Tra il 1894 e il 1897 , a sud del tempio di Dendara gli archeologi inglesi Morgan e Flinders Petrie rinvennero un sito di di grande rilievo in un piccolo villaggio sul Nilo , Naqada, che darà il nome alla cultura preistorica egizia. Vennero riportati alla luce resti di attività umane comprese in un'intervallo di 500000 anni, con asce e utensili risalenti al Paleolitico inferiore
Durante il periodo denominato Naqada I (4000-3500 a.C.) è attestata la presenza di insediamenti vicino a Hierapoli ( Alto Egitto) con l'introduzione del mattone crudo e dei forni per la ceramica e la capacità di cuocere il pane e produrre la birra. Con la Naqada II (3500-3300 a.C.) la civiltà si estese verso nord fino a giungere al delta del Nilo.
Seguì una fase con clima più arido che costrinse i residenti a creare sistemi di irrigazione per l'agricoltura e vide l'introduzione della pala. E' in questa fase che si registra il proliferare di fenomeni artistici con ceramiche di svariate forme, riccamente decorate. Sono stati ritrovati anche sepolcri contenenti corpi mummificati naturalmente avvolti da bende di lino. I panni costituivano anche il corredo funerario a indicare la presenza già in quell'epoca di rituali similreligosi